Carbonièr - Il lavoro dei carbonai di Marziai (BL) nel racconto dei testimoni. Progetto di una pubblicazione, 2

2 – Dalla legna al carbone

 

Provveduto all'essenziale per la permanenza della famiglia all'interno del bosco, iniziavano le operazioni il cui esito finale sarebbe stato il carbone di legna.

Prima di tutto bisognava tagliare la legna, rispettando i limiti temporali imposti dalle consuetudini e dalla legislazione forestale: non oltre metà marzo e non prima dell'otto settembre.

È chiaro quindi che nel periodo iniziale di permanenza nel bosco doveva essere tagliata una quantità di legna sufficiente per i circa sei mesi in cui non si poteva più tagliare. Il taglio avveniva a mano, «non la motosega come adesso, ma con la manèra  (accetta), e col seghét (sega)»[1].

Dopo il taglio, la legna doveva essere trasportata manualmente [2] nei pressi dell'èra (aia) - il luogo in cui doveva sorgere el pojàt (la carbonaia) - iniziando da quella tagliata per prima e che nel frattempo si era già un po' paìa (appassita, asciugata).

La legna migliore sarebbe stata quella di rovere e carpine. Di fatto i carbonai di Marziai usavano quasi sempre il faggio.


Che tipo di legna utilizzavate per fare carbone?

«Faggio, faghèr… era il più commerciabile» [3].

«Là in Jugoslavia era tutto faggio, praticamente … e siccome di solito erano piante anche abbastanza grosse, perché non facesse tutta bràsca (non si sbriciolasse), dopo averle tagliate nella giusta misura, bisognava anche spaccarle tutte; spaccarle, prima di metterle dentro nel pojat» [4].


La costruzione e la cura del pojat era senza dubbio l'operazione più delicata e complessa: da essa dipendeva la buona riuscita del prodotto finale. Era una tecnica antica di cui non si conosce l'inventore (d'altronde, chi conosce il nome dell'inventore del mulino che, con le sue macine ha garantito per millenni la farina di cereali, elemento base dell'umanità?).

La visione comparata della tavola settecentesca dell'Encyclopédie [5] con una foto del cantiere dei carbonai di Serra San Bruno (Vibo Valentia, 2006) evidenzia una sostanziale identità nel metodo di produrre carbone di legna per mezzo della carbonaia.

Semmai la differenza è fra i carbonai di Marziai e quelli dell'Encyclopédie o di Serra San Bruno. I primi - come la maggioranza dei carbonai che “da sempre” hanno fatto carbone lungo la fascia prealpina e la dorsale appenninica (per restare all'Italia) - operavano prevalentemente a dimensione familiare: singole famiglie o gruppi di famiglie che portavano a compimento l'intero ciclo del carbone, spostandosi di stagione in stagione in luoghi sempre diversi.

Nell'Encyclopédie, come anche a Serra San Bruno, si nota invece una razionalizzazione del lavoro che porta il carbonaio ad occuparsi solo della produzione del carbone e non anche del taglio della legna e della sua condotta sul luogo.


«I Carbonaj non sono obbligati a tagliar il legno che mettono in opera, ma lo trovano del tutto pronto, e tagliato della lunghezza e grossezza che occorre, e disposto in cumuli, come si vede nella Vignetta Num. I.  della Tavola VIII. [VII] in  a  b», spiega Francesco Griselini nel 1769 [6], che peraltro, riproduce pari pari la tavola dell'Encyclopédie.

«La legna per fare il carbone ce la portano direttamente in cantiere col camion», ci dice Salvatore Vallelunga di Serra San Bruno, nel giugno del 2006.


Restiamo comunque ai nostri carbonai di Marziai.

La carbonaia veniva allestita su uno spiazzo circolare chiamato èra, precedentemente livellato con zappa e badile (el sapón e el badíl) e di una larghezza calcolata in base alla quantità di carbone che si voleva ottenere.


«Noialtri, l'èra, quella rotonda dove si accatastava, la si misurava a piedi, così… ».

Non avevate un metro?

«A piedi, così. Per fare un cento quintali di carbone, ci volevano dalle 28 alle 30 scarpe…».

Per fare cento quintali di carbone…  cioè per 500 quintali di legna.

«500 quintali di legna? 30 scarpe!»

Mettiamo che ogni scarpa siano trenta centimetri…

«Provi a fare il conto lei, quanti metri è di circonferenza?».

Nove metri.

«Eh, saranno nove – dieci metri, sì» [7].


Al centro dell'èra veniva innalzato il “camino” della carbonaia, che poteva essere un semplice palo [8] che, terminato el pojàt, veniva estratto oppure, come in genere facevano i carbonai di Marziai, un castelót, cioè una specie di torre quadrata, con lati di 30-35 cm, formata da due pali conficcati sul terreno (póntói) ai quali venivano poggiati dei tronchetti fino ad innalzarsi per due metri e mezzo – tre, tanta era l'altezza complessiva del pojàt.

Per la tecnica di costruzione del castelót e dell'intero pojàt cediamo la parola a Livio Vergerio.


«El castelót si faceva così … Prima di tutto ci sono i due pontoni (i póntói) in piedi, uno su un angolo e l'altro sull'angolo opposto. Uno di qua e uno di là … col mèdho (“mezzo”) in mezzo, per avere il centro».

Come, con il “mezzo”?

« Il “centro”: un tocchetto di legno alto così. El mèdho, lo si chiamava, per avere il centro. Sennò come si fa a mandar su un pojàt?L'èra, dove si fa el pojat, deve avere un centro, per partire, se si vuole farlo rotondo, sennò non può mica venire rotondo. Un punto di riferimento ci vuole. Bastava un pezzettino di legno alto trenta centimetri e largo tre, bastava che si vedesse. Quello era il centro dell'èra e si partiva da là per “far su” el pojat.

Ai due póntói si appoggiavano poi dei bacchét (tronchetti), lunghi trenta-trentacinque cm e grossi sui sette-otto centimetri. Tutti uguali, perché bisogna che sia perfetto, deve essere una cosa perfetta, non un “subbuglio” con un bacchét lungo e uno corto.

Si sovrapponevano questi bacchét fino ad arrivare ad un'altezza di mezzo metro circa e dopo gli si metteva dei bacchettini in piedi [con una pendenza minima], tutt'attorno. In questo modo, i bacchét del castelót venivano tenuti fermi, in mezzo, dai póntói… e, ai lati, da questi bacchettini in piedi, no! E dopo, mano a mano che si saliva col castelót e si arrivava a un metro, gli si appoggiava attorno dei bacchetti da un metro, proseguendo con dei legni più grossi finché alla base avevi fatto un metro di diametro».


A questo punto cominciava a prendere forma il primo scalét (il “primo piano”) del pojàt. Quando il primo piano aveva raggiunto una consistente dimensione, si procedeva ad innalzare sopra di esso un altro “piano” (scalét) di legna, previo prolungamento del castelót centrale, cui veniva appoggiata la legna allo stesso modo che nel primo piano. Normalmente la lunghezza di tronchi e tronchetti di legno che formavano el pojàt variava fra il metro e venti e il metro e cinquanta e di conseguenza l'altezza complessiva del cumulo di legna da trasformare in carbone risultava sui due metri e mezzo – tre.


«Quando si prendeva un legno per fare lo strato superiore non si faceva altro che fare tùc, e poggiarlo così… tuc, e poggiarlo così… e si proseguiva tutto intorno. Si continuava in questo modo, fino a che el pojàt era finito.

Sopra i due strati di legna sovrapposta verticalmente veniva messo, trasversalmente, un altro strato di legna più corta (sui 50-60 cm), che formava el téstín. Per disporre questa legna “a copertura” della parte superiore del cumulo ci si serviva di una scala chiamata el pónt, costruita alla buona, con legno del luogo».


La parte esterna del pojàt era formata da legna via via più sottile in modo da eliminare il più possibile gli interstizi fra un tronco e l'altro.

Completato il cumulo di legna si provvedeva a “rivestirlo” con uno strato di alcuni centimetri di stràm e ramàda de faghèr (strame e ramaglie di faggio), oppure con fronde di abete, sopra cui veniva disteso uno strato di terra ben sminuzzata (meglio se proveniente dalla carbonizzazione di un precedente pojàt ) con il compito di impedire il passaggio dell'aria [9]. In presenza di aria, la legna si sarebbe semplicemente bruciata e non trasformata in carbone.

Detto con le parole di due carbonai…

«La terra “purificava” la legna, che si cuoce senza fare la fiamma…  Se lei dà fuoco a quella legna là, arde; invece con la terra sopra il calore resta tutto dentro, così la legna “si passa” e diventa carbone» [10].

Oltre che dalle foglie e dalle frasche, la terra era anche trattenuta, esternamente, da una “cintura” posta nella parte inferiore del pojàt (a circa un metro di altezza) e formata da un cerchio di sàche intrecciate (ramoscelli di nocciolo o altro legno malleabile), sostenute a intervalli regolari da scavéss, ovvero da tronchi di legno di una quindicina di cm. di diametro, tagliati a metà con l'accetta, in senso verticale.

Alla base del pojàt, per farlo “respirare”, per farlo “fumare” meglio, venivano praticati dei buchi di sette otto centimetri di diametro (le foghère) posti alla distanza di un metro, un metro e mezzo uno dall'altro.

Ora la carbonaia era pronta per essere accesa. Si accendeva a lato del pojàt una fogheréta con rami secchi e quando il legno per metà era brace e per metà stava ancora bruciando, lo si prendeva con una pala e, servendosi della scala (el pónt), si saliva fino all'apertura superiore del pojàt e lo si lasciava cadere sul fondo del castelót. Questo fuoco iniziale veniva subito alimentato con piccoli e sottili tronchetti di legno, lunghi una decina di cm e chiamati i bòt.

I carbonai dicevano che bisognava “dare da mangiare” alla carbonaia (se ghe déa da magnàr al poiàt), cioè si doveva alimentare senza sosta il fuoco.

Dí e nót (giorno e notte) i portéa su le légne col sàc (portavano su la legna con un sacco) spingendola verso il basso con una stanga. Il fuoco ardeva nel castelót e progressivamente risaliva fino a raggiungere la parte superiore del camino. Tale operazione durava un paio di giorni, fino a che il forte calore raggiunto al centro del cumulo procurava l'accensione dell'intero pojàt, partendo dall'alto.

A questo punto si provvedeva a chiudere la bocca del camino e iniziava la lenta combustione della carbonaia — che durava una settimana-dieci giorni, a seconda delle sue dimensioni — proseguendo sempre dall'alto verso il basso.

Anche durante questi giorni la vigilanza dei carbonai doveva essere costante. Sempre seguendo il procedere della combustione, si dovevano praticare dei buchi con un apposito bastone, chiamato el furigón.


Quanti buchi facevate?

«Secondo la grandezza del pojat. In media uno ogni venti-trenta centimetri; buchi piccoli… larghi poco più di un dito. Se sponciàva (si spingeva) col furigón e si facevano due file di buchi: una dove c'era il fuoco e una sotto, dove ancora non aveva iniziato a fumare, perché il fuoco deve venire sempre in giù, sempre in giù, deve venire. I buchi ci volevano, perché sennò scoppia! Se non ha respiro, el pojàt scoppia.

Le file dovevano avere i buchi “dispari”, cioè un buco della fila inferiore non doveva essere esattamente sotto a un altro della fila superiore, ma al centro di due buchi della fila di sopra. 

Si continuava a fare i buchi seguendo la combustione… fino in basso, fino a quando tutta la legna si era trasformata in carbone» [11].


Buchi praticati nella carbonaia per la combustione controllata (per farla "respirare").
Azienda ''Vellone Carbone di Calabria'' (fotogramma da YouTube, video di Gigi Gej Radiofacebook).


Oltre a questi buchi procurati ad arte dal carbonaio, potevano avvenire dei parziali crolli in qualche porzione della carbonaia, magari provocati dalla combustione più veloce della legna, facilitata in quel punto da infiltrazioni d'aria. Perciò …


«… Bisognava sempre fare qualche giro perché el pojàt può fare un búss (buco). Se fa búss è perché la terra è asciutta e va dentro, e andando dentro, la terra va giù, in mezzo alla legna … e dove c'è terra il fuoco non va più avanti».

Allora cosa bisognava fare?

«Individuato il búss, bisognava prendere un po' di stràm, come le ho detto prima, di foglie: metterle lì e dopo con un poca di terra coprire il buco. Così riprendeva la combustione»[12].


Intanto, mentre il primo pojàt fumava…


«… perché non è che arde el pojàt: el pojàt non arde mai, perché se arde si brucia e viene fuori cenere. Allora, quando il fumo di un pojàt arrivava magari a metà, se ne accendeva un altro. E prima che finisse questo, magari un altro ancora. Era tutto un lavoro a rotazione, era una ruota, praticamente.

Finché non si finiva il proprio lotto di bosco, ghe n'èra sempre un pojàt che fuméa … o uno o due» [13].


Mano a mano che la combustione avanzava la dimensione della legna si riduceva e il pojàt si abbassava [14]. Il colore del fumo e altri segnali che solo i carbonai sapevano cogliere indicavano quando il processo si era concluso e la legna si era completamente trasformata in carbone. La lunga consuetudine permetteva anche — con una sommaria misurazione “a bracciate” e in base alle “scarpe” (la circonferenza iniziale del cumulo) — di conoscere quale sarebbe stata la resa complessiva di un pojàt.


«Quando el pojàt era finito e si era livellato bene, noi si presumeva… Se l'èra aveva tot scarpe, con le bracciate, così, misuravamo attorno e sapevano più o meno quello che el pojàt poteva dare. Non si sbagliava, o si sbagliava di poco… se andava bene! Perché poteva andare anche male.

Perché certe volte una carbonaia può andare male. Mettiamo che viene troppa piova quando è oltre alla metà cottura ed è quasi giù in fondo, è quasi finito… può andare anche male, se piove troppo. Magari è pronto da levare, e non si  può levarlo perché continua a piovere, dentro può darsi che faccia… che si bruci anche… che si bruci veramente… e viene fuori bruciato, eh sì» [15].


La produzione media di un pojàt nei boschi cedui attorno a Marziai era sui 50 – 60 quintali di carbone, ma in Jugoslavia dove si lavorava nei boschi ad alto fusto «si facevano poiàt da cento e passa quintali»[16].

Il rapporto fra legna e carbone era invece di cinque a uno, talvolta sei a uno. In altre parole da 5 - 6 quintali di legna si otteneva 1 quintale di carbone, con una resa media del 16-20% [17].

Terminata la combustione della carbonaia iniziava l'estrazione del carbone dal cumulo. Un lavoro faticoso, a contatto sia con il calore che ancora sprigionava il carbone sia con la sua polvere, che oltre a impregnare i vestiti, inevitabilmente anneriva il viso e le parti scoperte dei carbonai che lavoravano il carbon dolce in modo non molto diverso da quanto la poussière delle miniere di carbon fossile impregnava i loro colleghi che lavoravano nel fondo della terra.


«Si iniziava a scoprire un po' alla volta la carbonaia, dal basso, tirando giù terra, tirando fuori carbone. Tirar fuori un pochettino, portar via e dopo coprire; coprire con la terra dove si levava, perché se lei lo scopre tutto, el pojàt,  essendo ancora caldo, s'incendia.

Poi si proseguiva levando sempre attorno così, sempre attorno, sempre attorno, fino che si arrivava alla fine.

Certe volte lo si levava anche di notte, quando c'era chiaro di luna, ed era il più delle volte, perché durante il giorno faceva molto caldo. E di notte era anche più facile vedere se qualche pezzo di carbone si accendeva, a contatto con l'aria e allora si era subito pronti a versargli sopra dell'acqua; meglio acqua piuttosto che terra, perché sotto la terra il carbone poteva stare acceso ancora per molto tempo».

Che attrezzi usavate?

Il carbonaio che tirava, che cavava dal pojàt, aveva el rampín e el badíl. Quello invece che lo tirava fuori, e lo disponeva sull'èra, lontano dal pojàt, quello aveva el restèlo e el sgòbel.

El sgòbel, cos'era?

Una forca, praticamente. Una forca fatta di ferro con dodici-quattordici denti, ma, stretti fra di loro, così: tre quattro centimetri fra l'uno e l'altro.

Mentre el rampín era una specie di uncino fatto con la nervatura centrale di un badile. Quelli erano gli attrezzi: rampín e badíl, sgòbel e restèlo.

Mio papà tirava giù il carbone dal pojàt, e mia mamma, assieme a noi figli, tutti quanti insieme, lo si tirava fuori e lo si ammucchiava, lo si ammucchiava sempre. Come andava avanti lui, noi lo ammucchiavamo, fino a che si faceva tutto un giro, tutto rotondo… ».

Non lo mettevate nei sacchi, direttamente?

«No, no… era pericoloso, bisognava che si fosse raffreddato almeno un paio di giorni».

E se pioveva?

«Se pioveva si avevano i copertoni, i padroni ci davano dei copertoni per coprirlo».

Come, “dei copertoni”?

«Dei teloni! Noaltri se i ciaméa [li si chiamava] cópertói… copertoni insomma, come quelli che hanno le macchine, adesso… i teloni».

E dopo due tre giorni che si era raffreddato lo mettevate nei sacchi e il padrone veniva a prenderselo…

Non il padrone, mandava il carrettiere. Il padrone viveva a Trieste, in cravatta! Mandava il carrettiere, con il carro e due cavalli, perché là in Jugoslavia c'erano delle stradelle, insomma… non strade vere e proprie, stradelle, strade forestali. Invece a Genova, che abbiamo fatto carbone anche là… allora là, siccome le montagne erano troppo pendenti, là venivano con i muli, a sóma» [18].


Nei boschi attorno a Marziai, invece, il trasporto del carbone dal bosco al punto di raccolta avveniva…


«Qualche volta con la schiena… ma di solito con la slitta, sette otto sacchi per viaggio… con la slitta».

Ma solo d'inverno, con la slitta…

«No, no… come adesso, come adesso, in piena estate. Perché aveva i ferri sotto e scivolava. Le làme, noi le chiamiamo, quelle larghe come una mano» [19].


Questo carbone veniva poi preso in consegna da commercianti - imprenditori locali che a loro volta lo portavano a dei grossisti - rivenditori giù in pianura.


«Lo si portava fino a Treviso, Vicenza, Mestre… a commercianti che poi lo rivendevano…».

Che uso veniva fatto di questo carbone?

«Al posto del gas. Nella cucina, per far da mangiare, al posto del gas… dentro ci mettevano il carbone» [20].


Note


[1] Livia Vergerio.

[2] D. «Con cosa portavate la legna?». R. «Con queste, con le spalle, tutto a schiena…» ( Livia Vergerio)

[3] Raimondo Solagna e Livia Vergerio, nei boschi vicini a Marziai.

[4] Livio Vergerio.

[5] I diciassette volumi di testo dell'Encyclopédie française pubblicati fra il 1751 e il 1765 sotto la direzione di Denis Diderot e Jean-Baptiste d'Alembert furono completati dal Recueil de planches sur les sciences, les arts libéraux et les arts mécaniques avec leur explication (1762-1772) comprendente 1805 tavole.

La tavola qui riprodotta è ripresa dalla edizione italiana del Recueil… : Il mestiere e il sapere duecento anni fa, Mondadori, 1983, p. 45.

[6] Griselini Francesco, Dizionario delle arti e de' mestieri compilato da Francesco Griselini, Tomo quarto  «CAN – CAV». In Venezia, 1769, Appresso Modesto Fenzo, Con Permissione de' Superiori, e Privilegio, p. 89.

[7] Livio Vergerio.

[8] Vedi la tavola dell'Encyclopédie.

Il camino a forma di palo (a pàl) era una delle tecniche utilizzate anche dai carbonai del Cansiglio, che inoltre usavano i seguenti sistemi: a ròs, con tre pali ai quali venivano legate delle stròpe all'altezza necessaria per appoggiarvi i tronchetti iniziali del pojàt; a sòc, cioè mettendo della legna grossa al centro del pojàt, disponendola orizzontalmente e in modo da lasciare un buco in mezzo; infine a casèla (che di fatto era un castelót), sistema usato soprattutto quando si doveva erigere un pojàt più grande. (Bonfiglio Carlét)

[9] «Il rivestire il poiàt si diceva scherzosamente i fa la camisa [fare la camicia]; se la terra era nera si parlava de la vèsta da prée (veste da prete)». Giovanni Angelini, Carbonaie in Zoldo, in “Dai monti alla Laguna, Produzione artigianale e artistica del bellunese per la cantieristica veneziana”, a c. di Giovanni Caniato e Michela Dal Borgo, Comunità Montana Cadore Longaronese Zoldano, 1988, p. 95. Da notare come già Griselini nel 1769 riferisse l'espressione “legno da camicia” riguardo al «legno assai minuto (…) o piuttosto dei bastoni… », il cui compito era riempire i vuoti che restano «allorchè si avrà coperta la superficie dei pezzi grossi». Griselini, Op. cit., p. 91.

[10] Giuseppe e Rinaldo Vergerio.

[11] Gabriella Deon e Antonio Colle.

[12] Livio Vergerio.

[13] Idem.

[14] «Poteva abbassarsi di un metro, un metro e qualcosa… anche un metro e mezzo». (Livio Vergerio)

[15] Livio Vergerio.

[16] Giuseppe e Rinaldo Vergerio.

[17] Cfr. anche Il carbonaio, Op. cit., p. 20.

[18] Il racconto dell'estrazione del carbone dal pojàt è di Livio Vergerio.

[19] Giuseppe Vergerio.

[20] Rinaldo Vergerio.




Località in cui hanno lavorato i carbonai di Marziai


Abbazia, HR  / Abruzzi/o Amatrice, RI / Antrodoco, RI / Austria / Bosnia / Croazia / Divaccia / Fontana Cara c/o Postumia, SLO / Gairak-Austria [Gajrak ?, loc. non identificata] / Istria / Jugoslavia / Liguria, provincia di Genova / Marianitto, RI / Marziai e dintorni / Monte Sasso Grosso, SLO / Montenero d’Idria, SLO / Olmeto [Brest], HR / Piemonte / Postumia, SLO / Rieti (provincia di) / San Pietro del Carso, SLO / Santa Giusta, RI / Senosecchia, SLO / Seren del Grappa / Torrita, RI / Val Cellina / Val Zoldana / Villa Nevoso - Bisterza, SLO / Zabiče, SLO


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