Carbonièr - Il lavoro dei carbonai di Marziai (BL) nel racconto dei testimoni. Progetto di una pubblicazione, 1

Nell'estate del 2006 - dopo aver visto all'opera i carbonai di Serra San Bruno in Calabria - mi misi di buona lena a trascrivere le interviste realizzate vent'anni prima a Marziai.

L’idea era di trarne una pubblicazione … che invece rimase nel cassetto.

Mi sarebbe dispiaciuto, però, che il materiale raccolto fosse andato perduto; per questo l'ho pubblicato sul web.



Progetto - non realizzato - di una pubblicazione
sui carbonai di Marziai. (Camillo Pavan, 2006)

Trascrizione dell'indice (piano di lavoro)

Carbonièr

Il lavoro dei carbonai di Marziai (BL)

nel racconto dei testimoni

 

PREMESSA  [Vita e lavoro dei carbonai di Marziai quali emergono da un ristretto ma significativo gruppo di testimonianze dirette]

Carbonai: perché proprio a Marziai e non nei paesi vicini?

Il paese di Marziai. [Numero abitanti, divisione geografica fra 2 comuni, sagre, osterie, ballo…]

Dentro par sti bòsc o Fora par la Jugoslavia

Assegnazione dei lotti

Organizzazione dei carbonai: singole famiglie o gruppi di famiglie

Viaggio e arrivo nel bosco

Dalla legna al carbone

Taglio della legna
Preparazione della èra (spiazzo per la carbonaia)
Trasporto della legna sulla èra
Preparazione del pojàt (carbonaia)
Accensione e cura del pojàt
Il prodotto finito: resa e commercializzazione del carbone


Vivere nel bosco

Da fine inverno ad autunno inoltrato
Alimentazione
Bevande
Medicine 
Feste


Le donne

Se laóréa, da matina a sera

Partorire nel bosco


I bambini

Il lavoro, il bosco e i suoi frutti

La scuola e la socializzazione


Fine dell'era del carbone di legna

La “legna a metro”

L'emigrazione


La riscoperta dell'«arte di fare il carbone»

A Marziai, 1980: Giobbe Deon

In Italia: dalla fine degli anni '70


Antologia di testi sui carbonai



                                   


1 - Dentro par sti bosc o fora par la Jugoslavia

 

Solo poche famiglie, fra i carbonai di Marziai, lavoravano nei boschi che stanno alle spalle del paese, sulle montagne poste sull'estremo lembo della provincia di Belluno verso i confini con quella di Treviso (Col de Túche, Salvedèla, Garda, Fossàssa, Forconèda…). Tenuti a ceduo, i boschi locali erano magri, la loro resa modesta e non potevano assicurare legna per molte carbonaie.

Certo, chi li lavorava aveva il vantaggio di essere vicino a casa. Un vantaggio che, di fatto, si traduceva nella possibilità per le donne di poter tornare in paese a fare la spesa.

 

«Si veniva fuori dal bosco nella notte fra il sabato e la domenica, con la gerla. Mia mamma mi prendeva con sé, perché ero piccola. Si partiva quando era ancora buio in modo di essere in paese al mattino presto. Si faceva la spesa per tutta la settimana, si andava a messa e poi si partiva con la gerla in spalla e si tornava dentro. Si camminava per almeno tre ore e si arrivava al nostro cason verso mezzogiorno. Mio papà intanto aveva preparato la polenta… e allora polenta e formài per tutti»[1].

 

L'assegnazione dei lotti per la produzione del carbone, nei boschi della zona, avveniva in autunno, previa autorizzazione della Forestale e per mezzo di aste cui partecipavano, assieme ad appaltatori di Lentiai, Miane, San Pietro di Barbozza, anche i due appaltatori del paese Piero Solagna e Amedeo Vergerio.

Essendo i boschi quasi tutti comunali, l'asta avveniva nella sede del Comune proprietario, col metodo della “candela vergine”


«Accendevano tre candele [una di seguito all'altra]. Uno offriva cento, un altro cento e venti, un altro ancora cento e venticinque, finché l'ultima offerta - prima che l'ultima candela si spegnesse - restava valida»[2].

Quanto grandi erano queste candele?

«Ah, erano cerini, poco più di cerini… era un attimo!» [3].


A parte la vicinanza dei boschi, la sostanza del lavoro e della vita nel bosco di chi faceva il carbone in zona era la stessa di quelli che andavano a lavorare fora par la Jugoslavia.

I ricordi dei testimoni si fermano prevalentemente al periodo fra le due guerre, e per Jugoslavia intendono quella parte di Slovenia e Croazia che era stata conquistata dagli italiani con la Prima guerra mondiale. Ma un paio di testimoni nati prima della Grande Guerra ricordano come le loro famiglie fossero solite addentrarsi all'interno dell'Impero Austro-ungarico.


«Io sono nata nel 1912, dentro per Gairak – Austria, proprio, nel bosco … e dopo ho sempre fatto carbone, dappertutto. Giù per gli Abruzzi, via per la Jugoslavia, dappertutto»[4].

«Una volta me barba Domenico, fratello di mia madre è montato su una zattera qua al porto di Marziai, con i bagagli gli attrezzi e tutto… e poi la zattera si è incagliata più giù sul Piave, al Fondacón, lo chiamano. Allora, pronti, i zathèr… butta fuori tutti i bagagli, butta fuori tutto, sulle grave, così? Butta fuori tutto, e un po' alla volta, tirando con una corda, aiutandosi con i mantèi … la zattera ha ripreso l'acqua e sono tornati a caricare tutta la roba e hanno continuato il viaggio giù per Treviso, giù per Venezia, perché me barba doveva andare dentro per la Bosnia, quella volta, a fare il carbone… » [5].


Fra le due guerre invece i carbonai si fermavano in quel territorio sloveno o croato che all'epoca era italiano a tutti gli effetti, ma che dopo la Seconda guerra mondiale entrò a far parte della Repubblica Jugoslava [6].


«Io sono nato a Postumia. Anche sulla carta d'identità, ancora oggi, è scritto: Postumia, Jugoslavia, 13 agosto 1927. Sono nato là nel bosco, perché mio papà e mia mamma, in quel periodo d'estate, stavano facendo carbone vicino a Postumia.

Ricordo che siamo stati a Senosècchia, a Divaccia, a San Pietro del Carso, ma anche in provincia di Pola, a Olmeto e in provincia di Fiume, a Montenero di Idria» [7].


L'assegnazione dei lotti di bosco in Jugoslavia avveniva per chiamata da parte del fattore dell'impresario che ne aveva acquistato il diritto di sfruttamento.


«C'erano delle ditte che avevano il loro fattore, che veniva a Marziai e si interessava a trovare gli uomini. Il fattore, era quello che controllava come procedeva il lavoro e dopo veniva anche a pesare il carbone… ».

Si ricorda il nome di qualcuna di queste ditte?

«C'era Rupèra, che era una ditta grossa di Trieste; c'erano Pangrazio, Dal Prà…»

Sempre di Trieste?

«No, di Postumia. Nativo non so da dove, so che aveva sposato una slava, e abitava a Postumia. Ma c'era anche Sartori, di Vicenza… C'era un po' di tutto. L'impresario incaricava il fattore che veniva a fare il giro in paese».

Dove si metteva per fare le sue ricerche?

«Nelle osterie, poh! Chiamava questi operai, che conosceva. Parlava con uno e allora quello andava a chiamarli e si combinavano. Ah, sempre nelle osterie, loro… » [8].

«E dopo, a Senosecchia, c'era Giuseppe Verdi. Sarebbe stato uno che ha cambiato il nome, praticamente. Era slavo ma si è dato un nome italiano … e ha voluto farsi chiamare Giuseppe Verdi» [9].

 

Il viaggio verso la Jugoslavia, finita l'epoca avventurosa delle zattere, avveniva in treno partendo dalla vicina stazione di Quero, oppure facendosi accompagnare in automobile

- una fiat 501 - da Romolo Corrà, di Vas. Il bagaglio era ridotto all'essenziale, un po' di indumenti e gli attrezzi.

Il treno era il mezzo più usato per il viaggio in altre località lontane, come quelle in provincia di Rieti.


«Mi ricordo di essere stati giù [in provincia di Rieti], con mia povera mamma. Si andava giù in due tre famiglie. Con il treno siamo andati giù che ci sono voluti tre quattro giorni, si andava meglio che si poteva, insomma. (…) Quando si era arrivati, si prendeva la strada, si andava su nel bosco, si facevano le baracche, fatte di legno.

La prima notte, dove dormivate, se non c'erano le baracche? 

Eh, ma era andato giù prima mio padre. Gli uomini avevano già fatto le baracche… Erano partiti prima, gli uomini, per far le baracche» [10].

 

Costruire la baracca, el casón de carbonièr, piccola e provvisoria dimora che a tutti gli effetti sarebbe stata la casa dei carbonai per l'intera stagione, era quindi la prima operazione.

El cason, per quanto costruito velocemente e in modo rudimentale, doveva garantire un rifugio per l'intera famiglia, di notte, nei giorni di pioggia, per il pranzo e per la cena. La sua costruzione richiedeva quindi abilità ed esperienza.

 

El cason, spiega Livio Vergerio, veniva costruito con i sponài de cason, tronchi (generalmente di faggio) con i quali si formavano le pareti - alte due metri circa - e che venivano incastrati fra loro alle estremità (se ghe féa el tàpp). Al centro della parete anteriore e di quella posteriore, venivano infissi nel terreno due tronchi “a forcella”, sui quali si poggiava un palo che formava el colmo, alto da terra sui due metri e mezzo. Al colmo venivano adagiati dei tronchetti più sottili che scendevano spioventi sulle pareti laterali, a formare il tetto. Non mancava il camino che, in corrispondenza del focolare, sporgeva dal tetto per una cinquantina di centimetri: «si mettevano quattro listelli in piedi così, due di qua e due di là, uno per così e uno per così e poi lo si copriva con la carta catramata».

La carta catramata era il metodo comunemente usato anche per coprire il resto del tetto. E sopra alla carta catramata (per ripararla dalla grandine), sia sulle falde del tetto, sia sul camino veniva disposto uno strato di una decina di centimetri di stràm e ramàda de faghèr (foglie e ramoscelli di faggio), tenuto fermo da pali di legno in modo che il vento non lo portasse via.

Per evitare infiltrazioni d'aria all'interno del cason, le fessure fra i tronchi che formavano le pareti venivano chiuse con il muschio (le se stropéa col muscól).


Un'altra testimone, Livia Vergerio ci parla del casone che suo padre costruiva nei boschi vicino a Marziai. Il focolare era a fuoco libero, e il casone era senza camino. Il fumo pertanto si spandeva all'interno del ricovero, salendo verso l'alto e trovando una via d'uscita in un'apertura posta sulla parte anteriore del casone, sopra la porta d'ingresso.

Mi racconti della baracca, quanto grande la facevate?

«Lo stretto necessario per starci dentro. C'era un posto per fare il fuoco, c'erano la tavola e delle panche, una mensola per mettere su le scodelle, le tècie, le cassaróle e tùt… Si era come i signori, si era! Poi dentro si facevano le brande, per andare a dormire. Tutto in un'unica stanza…».

Quanto grande era, questa stanza? Come questa cucina qua? [11]

«Eh, proprio, proprio… »

Piccola, era! 

«Sì, sì, così…».

Il focolare, come lo facevate? Non c'era pericolo che bruciasse la baracca? 

«No, no… el fogólar [12] lo si rialzava un poco da terra, con dei sassi, e dopo, mio papà metteva un legno da una parete all'altra e vi appendeva la catena che sosteneva il paiolo sopra il fuoco, per far da mangiare».

 

Entrambi i casoni descritti dai testimoni erano costruiti nella stessa maniera: tronchi di legno e copertura con carta catramata. L'unica differenza, come abbiamo visto, era la presenza o meno del camino.

Il casone costruito invece dai carbonai di Villa di Cordignano (TV) - sulle pendici del non lontano Cansiglio - pur avendo le stesse dimensioni e la stessa pianta rettangolare, poggiava su un muretto a secco di pietre e sassi, alto 80 cm, su cui «vi si sovrapponevano dei tronchi d'albero generalmente d'abete» [13]. Anche il casone del Cansiglio era senza camino, tanto «el fúm l'è come l'òjo che l'è sempre par sóra» (il fumo è come l'olio, che sta sempre sopra) [14]. Il fumo saliva in alto, anneriva tutte le travi, ma poi fuoriusciva dalle due piccole aperture poste alla base anteriore e posteriore del cólmo della capanna, in modo che, a chi stava seduto a mangiare o a riposarsi, il fumo non dava fastidio.

 

Oltre al casone per gli uomini, si provvedeva poi a quelli per le capre (dove era permesso portarle nel bosco) e per le galline.

Molto simile a quello dei carbonai, ovviamente in forma ridotta, quello delle capre (el cason de le caóre).

Il pollaio per le galline (el punèr de le píte) veniva invece costruito sollevato da terra in modo da sfuggire agli assalti notturni delle volpi. Aveva una base di 1,5 x 1 metro ca. formata da asticelle su cui si poggiavano le galline, tetto spiovente incastrato direttamente sulla base, ingresso a forma triangolare. Malgrado le precauzioni «un anno la volpe ce ne ha portate via tredici… tutte quante, le galline!» [15].

Altra operazione fondamentale, all'inizio della permanenza nel bosco, era la costruzione dei pozzi per la raccolta dell'acqua piovana: uno per bere e far da mangiare e uno per la carbonaia (per spegnere qualche tizzone non ancora ben carbonizzato alla fine del ciclo).

I pozzi altro non erano che delle buche circolari profonde un paio di metri e rivestite da un sottile strato di cemento.

«Si facevano i nostri possèt (pozzetti)… e, finché si aveva acqua nel pozzo, bene… quando non si aveva più acqua nel pozzo allora ci toccava andarla a prendere dove si trovava, magari nelle pozze (póse) dove bevevano le bestie delle malghe»[16].


Note


[1] Livia Vergerio.

[2] Per «candela vergine», s'intendeva la candela che veniva consumata senza che venissero fatte nuove offerte.

[3] Lo stesso metodo era usato anche per l'assegnazione dei lotti di bosco da tagliare come “legna a metro”. Solo più tardi, dopo l'ultima guerra, s'iniziò a utilizzare l'«offerta in busta chiusa».  (Rinaldo e Giuseppe Vergerio).

[4] Anna Solagna. [Gairak o Gajrak, località non rintracciata; probabilmente bosniaca]

[5] Francesco Solagna.

[6] Fino al 1991, anno in cui iniziò, proprio con l'auto proclamazione dell'indipendenza da parte della Slovenia, la dissoluzione della Jugoslavia.

[7] Livio Vergerio.

[8] Raimondo Solagna.

[9] Livio Vergerio. Dopo il trattato di Rapallo del 1920, l'Italia e soprattutto il regime fascista, attuò nei territori occupati con la Grande Guerra (le Terre Redente) una dura politica di nazionalizzazione, che prevedeva fra l'altro l'italianizzazione forzata dei cognomi e dei toponimi locali.

[10] Mario Deon.

[11] La cucina, in cui stavamo registrando l'intervista, aveva una dimensione di circa 3,5 x 4,5 m. 

[12] Chiamato anche larín.

[13] Luciano Borin, Pietro Casagrande, Il carbonaio, Testimonianze di un'attività scomparsa, Cooperativa Servizi Culturali, Conegliano, 1984, p. 9.

[14] Bonfiglio Carlet. Il testimone ricorda come, sull'esempio dei carbonai di Solagna (VI, valle del Brenta) considerati dei veri maestri nell'arte di fare il  carbone, anche nel Cansiglio molte baracche venissero divise in “zona notte” (in cui comunque il fumo non entrava) e in “zona giorno”.

[15] Livia Vergerio.

[16] Idem.


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